MARA

 

Giuseppe Finocchiaro D 'Inessa

 

La vicenda raccontata in " Mara", una novella scritta da Giuseppe Finocchiaro D 'Inessa è ambientata in provincia di Catania,tra la fine dell'800 e i primi del 900, quando ancora i carretticarichi di frutti percorrevano la strada che da Paternò porta a Catania, punto di destinazione delle merci.

Mara, la giovane e bella protagonista, conduceva la sua misera esistenza tra Piano Tavola e Valcorrente, intrattenendosi con i carrettieri di passaggio per la città. Non era mai stata in paese e non si allontanava mai da casa perché doveva accudire la madre vecchia e paralitica.

Molte volte il suo ragazzo, Stefano, l'aveva pregata di andare a vivere con lui a Catania, ma le sue preghiere erano state inutili, perché nonostante Mara amasse tanto quell'uomo robusto e dalle spalle larghe, temeva che lui si sarebbe stancato presto di lei.

La ragazza non aveva paura della morte , ma temeva le malattie e, a causa di un acquazzone, si ammalò di pleurite e fu colpitada una febbre sempre più grave che segnò l’inizio della sua agonia.

Sentendo che la sua fine era ormai vicina, sola e abbandonata anche dall’uomo che aveva amato, ella decise di andare da suo fratello, Bastiano, che abitava a Catania, per provare a convincerlo a prendersi cura della madre.

Egli era un uomo robusto, con due grossi baffi, una voce possente, lo sguardo arrabbiato, assolutamente indifferente alle vicende della madre e della sorella. Dopo essersi fatta dare un passaggio da un carrettiere, Mara raggiunse il fratello ma fu accolta da lui con pedate e parolacce.

L’autore sottolinea la forza fisica e l’egoismo di Bastiano, in contrapposizione alla forza spirituale e all’altruismo della protagonista,evidenziando così il valore delle due forze antagoniste, tra le quali è la seconda a vincere, in quanto Mara alla fine legge negli sguardi della gente che le sta attorno la solidarietà e la comprensione che da sempre aveva cercato.

Infatti, tra gli sconosciuti, si fece largo "una forza buona " che uccise il fratello che  la stava maltrattando.

Il testo affronta quindi la tematica dell’emarginazione di una donna che non si è creata una famiglia e che non vive secondo le regole stabilite e, quindi, è destinata ad una fine precoce e solitaria.

 

Di Natale Manuela 3B

 

Sulla strada maestra che da Paternò porta a Catania numerosi erano un tempo i carretti

che trasportavano ogni ben  di Dio in città. Nell'inverno, poi, per la raccolta delle arance,

non si potevano contare; sfilavano lenti in carovana per centinaia di metri: tutti portavano

la roba nel mare grande che assorbiva ogni cosa come spugna. Era un lavoro lento,

che dava pane a tante persone.

Era il tempo delle prime automobili e vederne una traballare sulle rampe affossate di

Giaconia e poi  correre tra le pozzanghere di Piano Tavola, giù giù, fino a Catania,

era un avvenimento di eccezione.

La ferrovia era stata messa da poco e molta gente andava ancora in carrozzella.

A Piano Tavola i carrettieri facevano sosta: mangiavano un boccone, bevevano

un bicchiere di vino di  Valcorrente, generoso come un purosangue e poi si

rimettevano in marcia, tra colpi di frusta e cantate a lunghi strascichi,

accompagnate al monotono boccolio delle ruote. A Catania,  consegnata la roba,

molti di loro si davano convegno alla taverna di compare Bastiano, che era nelle

vicinanze del porto.

Costui era un omaccione piuttosto attempato, il primo dei"Cianciacuddura"

disseminati per il mondo, tra cui, alcuni, morti di ferro abissino, laggiù,

tra le ambe , nel '96.

Egli era grasso come un.. … - diciamolo - porco, il viso nascosto in parte da

un paio di baffoni da competere con quelli di un vecchio mugik della steppa.

Alla sua goffa persona s'aggiungevano la voce cavernosa e lo sguardo severo

e collerico e un paio di braccia dalle mani larghe come due pale da forno, pronte

a scaraventare sulla strada il primo che gli avesse alzato la voce o che avesse fatto

cenno a mettere la mano in tasca per cercarvi qualcosa... Quando i clienti parlavano

di sua sorella, Mara, abbassavano la voce, ed egli, furbo com'era, li capiva dalle

labbra e negli occhi e lanciava certe occhiate gelide da far cascare il pane di bocca.

Mara viveva tra le sciare di Piano Tavola e Valcorrente, assieme alla madre paralitica

da tanti anni, in un casolare nascosto tra un duplice filare di ulivi saraceni, dinanzi

ai quali, trecento anni fa, la lava per timore, forse, di distruggere la vetustà di quei

tronchi stravolti e inghirlandati di musco, s’era devotamente fermata. Non aveva

più di venti anni: era bella, fresca, d'una bellezza selvatica, primitiva e innocente.

La sua pelle vellutata era di quel colore bruno acceso, che resiste alla forte luce del

sole e acquista più  calore e vita.

Sembrava che l'avesse partorita quel mare sconfinato di pietra; arsa dal sole e

consumata dal vento e dalla pioggia.

Talvolta nel viso si faceva scura e melanconica come il paesaggio arido e brullo

che le stava attorno, e, se ti guardava  con quegli occhi neri come le pietre che

calpestava e diffidenti come quelli di un selvaggio, sembrava ora ti volesse

divorare, ora odiarti, ora respingerti.

Difficilmente potevi comprenderla; non capivi se c'era in lei paura o consapevolezza

del suo misero stato. Quando, però, fissava lo sguardo nell'infinito, i suoi occhi

apparivano quelli di una madonna o di un fanciulla senza peccato.

Mara non era mai stata in paese, non aveva mai parlato con le ragazze di là, però

sapeva ch'esse non  uscivano sole e non parlavano con gli uomini, che andavano

a messa e pregavano Dio. Glielo diceva Stefano tra una carezza e l'altra.

Lei era diversa da quelle "sante" donne del paese; gli uomini che passavano da

quelle parti la cercavano, la volevano.

Per lei non vi era nessun Dio cui pregare o confessare il suo peccato, nessun

santo che l'aiutasse a togliersi da quella  vita che lentamente la consumava, la uccideva.

Il suo credo era negli uomini e in se stessa. Sapeva che il giorno in cui  si fosse

ammalata o che la sua bellezza fosse sfiorita, sarebbe morta sola, come un cane

senza padrone.

Quando Mara non era sotto gli ulivi o al riparo di una roccia, la trovavi seduta sul

muretto, tra la strada maestra e il viottolo che portava al casolare. Addosso

non teneva che pochi panni e in più parti del corpo si lasciava intravedere  il colore

bruno della carne. Uno scialle nero da carrettiere, che teneva a portata di mano,

era tutto il suo corredo.

In primavera, quando il mandorlo fioriva e tra gl'interstizi delle rocce spuntavano,

timide, le prime pratoline , Mara snudava le braccia e il seno ed appariva più bella,

simile ad uno di quei fiori sbocciati in su l'aurora al primo raggio di sole.

Stefano l'amava in modo diverso degli altri. Egli era un giovane robusto, dalle mani

callose, dalle spalle larghe come quelli di uno scaricatore e focoso più del suo morello.

Se sentivi interminabili colpi di frusta echeggiar nel silenzio di quella radura come lo

strepitio di una mitraglia, era lui che passava da quelle parti, cantando una di quelle

canzoni da carrettiere, melanconiche e sonnolente come le nenie dell'oriente.

Quella voce penetrava a Mara fino alle ossa, lasciava ogni cosa e gli correva incontro, e

quando s'accorgeva d'esser vista, scappava: le piaceva farsi rincorrere, finchè, stanca

s'abbatteva al suolo, sotto gi ulivi, col petto ansante nudo, e gli occhi fissi su di lui,

che la copriva di baci.

- Mara, quando finirà questa vita? vuoi venire con me? ti porterò a Catania... andremo

ad abitare in un quartiere fuori mano... non m'importa di quello che diranno ti voglio

tutta per me, per me solo, capisci?..- No, non voglio; resterò qui con mia madre...

tu lo sai com'è; ha bisogno di me... e poi, ti stancheresti presto... tu sai chi sono,

come vivo... No, non chiedermi questo!Così si dicevano spesso quando i loro

cuori erano presi dall'orgasmo. Volevano che quei momenti fossero eterni.

Un giorno, Stefano tornando dalla fiera di S. Giuseppe, vestito a festa coi pantaloni

e la giacca di velluto e il fazzoletto rosso legato a doppia scocca al collo, le portò

un braccialetto color di oro, che piacque tanto a Mara che non se lo tolse più

dal braccio, nemmeno quando divenne nero. Stefano diceva d'averlo comprato

da una zingara, di quelle che leggono la ventura nella mano, che portava 

fortuna ed era contro il malocchio. E per questo, Mara, prima di andare a letto lo

metteva accanto al capezzale, in un buco del muro, e si sentiva più sicura di sua

madre che teneva legate al trespolo una lunga serie di medaglie dove sfilavano

tutti i santi del Paradiso.

La sera, quando il tempo era bello e il silenzio della notte calava la coltre nera sulla

sciara, la vecchietta sgranellava il Rosario, mentre Mara, assente a quella devozione,

sedeva sulla soglia della porta con le gambe nude e la testa appoggiata al muro e

di tratto in tratto si dava delle manate alle cosce per schiacciare le zanzare che le

succhiavano il sangue.

Nelle sere d'inverno accendeva un bel fuoco dinanzi alla porta, poi sul tardi, prendeva

i tizzoni ancora ardenti, li metteva in una conca di terracotta, che portava dentro per

tenere caldo il casotto. Molte volte al guizzo della fiamma, aveva visto una immagine

strana, simile a quella della morte ed era rimasta a guardarla, ferma senza provare

il minimo di paura.

Non era quella che temeva, il pensiero della morte non l'aveva mai spaventata, quanto

invece l'atterriva il pensiero di una malattia: non avrebbe avuto ne medici ne medicine

e bastava un nonnulla, un dolore di stomaco, perchè Mara si mettesse a gemere in

un angolo del casotto o fuori, gridando: - E' finita, non mi vuole più nessuno ...

posso morire di fame, adesso!

E mia madre, come farà mia madre?..

Il giorno che Stefano non fece più quella strada, si scordò di Mara; ma siccome lei era

ancora bella e piaceva, quel distacco non la scosse tanto e, se non fosse stato per un

dannato acquazzone che  l'aveva colta quasi nuda sulla sciara e che poi doveva esserle

cagione di pleurite sarebbe campata cent'anni, alla faccia di quello che non s'era fatto

più vivo.Quando il male si fece molto grave, Mara cominciò a tossire; un pallore di

morte si posò sul suo viso: fu l'inizio di una lenta agonia.

- Come stai, Mara? Le chiedevano i carrettieri di passaggio, buttandole un pezzo

di pane come fosse un cane accovacciato là, sul muretto dove sempre aveva atteso

quel malandrino con la gonnella tirata un po' più su del ginocchio ed un sorriso sulle

labbra, dietro cui si celava il sarcasmo, l'odio ed il disprezzo di quanto le stava intorno.

Lei non rispondeva, scrollava appena la testa, raccattava il pane e aspettava che passasse

un altro. Di tanto in tanto diceva a qualcuno: "Quando non mi vedrete più, vuol dire

che sono morta".

Una notte di gennaio il vento turbinava violento sulla sciara, il casotto sembrava cedesse

a quella furia d'inverno. L'aria gelida s'infiltrava velenosa attraverso la fessura,

agghiacciava i due poveri infermi martoriati da più giorni dal freddo e dalla fame.

Mara aveva la febbre: si reggeva a stento. La vecchia giaceva sul letto duro come le

pietre e di tratto in tratto biascicava. "Dio... Dio mio! "- Smettila con questo Dio, ti dico,

smettila! A che serve chiamarLo se non ti sente... se non Lo vedi, se non c’è? . ...

Ecco, qui era il mio Dio... questo era, sì, questo, il mio corpo... quando piaceva a tutti e

ti dava di che mangiare... e ora...- E ora prega, figlia mia, prega che il Signore è grande...

Egli vede e perdona! ...

- Pregare? ... Io?! .... Non saprei nemmeno da dove cominciare ...Non ho trovato mai

il tempo di farlo, e poi, a che servirebbe? Dannare? Dannare mi voglio! Cos'è questo

mondo? che ho visto da che sono nata?.. chi sono io?.. Nulla, fango... sì... fango!...

Un colpo di tosse le troncò la voce, s'accasciò a terra.Dopo la mezzanotte il vento cessò.

La luna, appena sorta, rischiarava di debole luce la sciara, lasciando qua e là delle chiazze

nere per via di certi rialzi che tra poco sarebbero scomparsi quasi del tutto. Lontano ,

a tramontana, l'Etna avvolta nella sua candida pelliccia di ermellino dormiva tranquilla

simile ad un enorme orso bianco, che si gode la pace delle notti polari; più in qua, ai piedi

della grande montagna, il riverbero di piccole luci diceva che c'era un paese, dove la gente

dormiva o preparava gli armenti per la fatica del giorno.Mara non dormiva; seduta su una

panca ai piedi del letto della madre, avvolta nello scialle con la testa reclinata sul materasso,

fissava con lo sguardo la trave di centro, da cui proveniva il monotono dri... dri... di un tarlo

centenario. Il suo volto era tornato sereno, non piangeva. Un pallido raggio di luna penetrava

furtivo per un buco largo poco più di una spanna e andava a posarsi dolcemente sul volto

di lei che a quella luce morbida e riposante appariva straordinariamente bella, come una volta,

come se ad un tratto i segni di quel male che le covava nel petto cavernoso, fossero scomparsi.

Un pittore, in quel momento, avrebbe trovato in lei il volto di un angelo al chiaro di luna. Il canto

dei carrettieri che passavano nella notte ed il latrato dei cani spezzarono quel silenzio

opprimente. Mara si destò di soprassalto, dicendo alla madre che sarebbe andata a

Catania da Ba stiano, che gli avrebbe detto come stava lei, sua madre, e chi sa forse che

un senso di pietà non l'avrebbe spinto a tornare là tra quelle pietre per esser di aiuto a lei,

vecchia, i cui giorni si potevano contare come i grani della corona del Rosario che

teneva tra le mani. La madre acconsentì. Mara la strinse forte forte a se, da farsi male al

petto e uscì vacillando e battendo i denti dal freddo. Arrivata sulla strada, pregò il primo

che capitò; salì con fatica sul carro che era carico di verdura, mentre il carrettiere scese a

terra per fare andare il cavallo più leggero.

Il viaggio fu silenzioso: ne lei disse una parola ne quell'uomo le chiese che cosa stesse

facendo.

Quando furono in città, i primi raggi di sole dileguavano la fitta bruma grigiastra della notte

che si stendeva sulle case ancora addormentate. Mara per la prima volta vedeva i lunghi viali

fiancheggiati da grossi tronchi scheletriti, le piazze con le statue che la guardavano negli

occhi, i tram che suonavano la campana per fare allontanare la gente e i palazzi dalle ricche

facciate che toccavano il cielo. Guardava ora qua, ora là, meravigliata, come se si trovasse

in un fondo di fiaba e di sogno, dimentica di tutto.

Man mano che il carretto s'avviava verso il mercato, la città andava svegliandosi.

Potevano essere le nove. Nella bettola di compare Bastiano c'era molta gente; il garzone,

un ragazzo sui quindici anni, non aveva tempo di portare il vino sulle panche. Mara entrò.

Il fumo delle pipe la soffocò. Tossì.

- E' qui compare Bastiano? Chiese, timida al ragazzo indaffarato.

- Sì, sta venendo, è andato un momento di là, eccolo che viene.

In quella Bastiano apparve sulla porta di mezzo di là dal bancone.

Per alcuni secondi stette là immobile come di pietra, con gli occhi sbarrati e fissi su di lei

che tremava tutta di paura, in mezzo a tanta gente che la guardava incuriosita; poi, riavutosi,

senza aspettare che lei aprisse bocca, minaccioso, gridò: - Perchè vieni da me , spudorata

sgualdrina? Vattene dalla mia casa... Vattene prima che... E prese un  boccale vuoto e fece

per lanciarglielo.

- Tua madre... - rispose Mara con un fil di voce - se vuoi vederla è là, sola nella sciara.

- Vattene... Vattene t'ho detto, per Dio! E girò dal bancone per spingerla fuori con parolacce

dell'altro mondo. Mara cadde a terra. Tutti la guardavano con gli occhi fuori dalle orbite,

ma nessuno osava aprir bocca. Un ragazzone sui vent'anni che sin dal primo istante s'era

accorto di quella donna che pareva il Cristo alla colonna, beffato e deriso da tutti, s'alzò e,

facendosi largo tra le panche, si scagliò addosso a Bastiano che stava per caricare una pedata

alla sorella distesa al suolo, implorante a tutti pietà.La lite fu breve: un buco di lama di coltello

mandò compare Bastiano all'altro mondo.

Il giovane si dileguò a un subito tra quelli del porto.Mara venne sollevata con cura. Ad un tratto

parve che negli occhi di quella gente indurita dalla fatica e avvezza a quelle scene di sangue si

leggesse la pietà e la comprensione che lei da tempo andava cercando.Tra quelli c'era anche

qualcuno che l'aveva conosciuta là, in mezzo alla sciara. Mara girò lo sguardo attorno a se,

lentamente, atterrita; poi guardò in alto, sulla porta: i suoi occhi lucidi come di vetro si

incontrarono con quelli di Maria che stava appesa al muro in un quadro vecchio e consunto

come se stesse a guardia delle bestemmie che pullulavano nella bottega e di cui anche i muri e

le panche n’erano disgustati e pieni. Ella ebbe come un brivido in tutta la persona. La guardò

un istante, poi si voltò e pian piano si diresse verso il mare che mormorava lontano.

                                                                                           (Da Il Corriere di Catania del 6/8/53)