INCARTATRICI

 

di Carmelo Ciccia

 

Quand’ero ragazzo, mio padre mi conduceva spesso in campagna per farmi svagare. Io ero assai

timido;  e in inverno mi accontentavo di fermarmi davanti ai magazzini per assistere al deposito delle

arance raccolte. Gli operai mi volevano bene tutti; e fra una cassetta e un'altra mi davano qualche

arancia o si fermavano a  farmi qualche carezza quando non c'era il caposquadra pronto a sgridarli. Ma

se le giornate erano piovose o faceva troppo freddo, mio padre non mi permetteva di stare fuori; e

perciò ero costretto ad entrare nei magazzini, sebbene i miei occhi si adattassero malvolentieri alla luce

artificiale che illuminava quei vastissimi locali.

Nei magazzini lavoravano quasi soltanto donne. Il loro lavoro consisteva nel prendere le arance da un

gran mucchio, pulirle, incartarle e deporle in certe madie che, appena colme, venivano subito sostituite

da alcuni operai.  

Questo lavoro era fatto meccanicamente: trascorrevano pochi secondi da quando le incartatrici

riprendevano le  arance a quando le avvolgevano con la carta velina variopinta; e anche le madie si

riempivano in breve tempo; però i mucchi erano sempre alti, perchè i panierai venivano a scaricare

continuamente altre arance, in un perenne frastuono  di casse, madie e panieri gettati a terra, di carri e

autocarri, di uomini che vociavano e di donne che cantavano. Ogni donna aveva il suo mucchio e la

sua madia. Io andavo accostandomi ad ognuna di loro, mi fermavo a guardare quello strano lavoro e

mi chiedevo perchè dovessero incartare le arance dal momento che, per mangiarle, occorreva

poi strappare quella carta. Conoscevo di nome quasi tutte le incartatrici: Maruzza, Anna, Barbara,

Rosa, Nedda, Giulia. .. . Spesso mi mettevo a chiacchierare con loro o imparavo le 1oro canzoni;

qualche volta, anzi, dopo esserne stato sollecitato, ne cominciavo io qualcuna:

La primavera arriva,

caldo comincia a fare. ….

- Che bravo giovanotto - mi disse un’incartatrice una volta che mi ero infervorato di più. Io diventai

rosso come un peperone e scappai fuori. Mi parve, però, di non aver mai visto quella donna: e,

appena fui calmo, entrai di nuovo e sostai accanto a lei.

- Canti bene - riprese lei. Io arrossii di nuovo, ma stavolta non scappai; anzi le domandai subito: -

Come ti chiami?

-Elena - mi rispose.

- Ma non sei di Paternò.

- No, sono di Aci.

- Per questo non ti ho mai vista!

Il dialogo sembrava essere finito qui, e lei riprese con lena il suo lavoro. Io guardavo incuriosito quelle 

mani che andavano e venivano e ogni particolare del suo corpo; e quella donna mi sembrava diversa

dalle altre incartatrici, non dimostrava la loro rudezza. Se ne stava quasi sempre appartata e non

cantava mai. I suoi occhi, poi, avevano qualcosa di veramente strano; e nel corso della giornata, anche

quando' fuori guardavo i tagliapeduncoli seduti su quelle sedia nane che altre volte mi facevano

sorridere, mi fecero pensare a lei. L'indomani andai subito da lei e le chiesi il permesso di aiutarla.

Pensavo che in lei dovesse esserci qualche mistero. Lei fu molto gentile, mi accarezzò e mi permise di

sedermi  accanto a sè, su una cassa. Avvolgevo lentamente qualche arancia e la buttavo nella madia.

- A me le arance piacciono senza carta e con le foglioline – dissi per attaccare discorso. Poi aggiunsi:

- Ma se sei di Aci, perché vieni a lavorare così lontano?

- Perchè al mio paese non posso trovare lavoro - rispose.

- Sei sposata?

- No.

- E perchè non ti sposi? Potresti evitare di lavorare.

- Gli uomini non mi vogliono.

Mi chinai sul mucchio e dopo un po' di silenzio ripresi:

- Non capisco perchè gli uomini non ti vogliono.

- Dicono che sono una donna cattiva.

- Cattiva? E che fai? bestemmi o hai rubato? hai forse ucciso qualcuno?

Elena si limitò a fare un cenno negativo col capo, continuando il suo lavoro.

Mi sembrava strana quella donna che gli uomini dicevano cattiva e

Non volevano sposare, mentre secondo me era buona e bella. Mi piaceva ogni giorno di più restare a

chiacchierare con lei, sentirla descrivere il suo paese, parlare delle chiese, delle case e delle persone di

quello che per me era un altro mondo. Io le parlavo di me, del mio paese, dei premi che prendevo a

scuola, del mio  compagno di banco, del cagnolino che stavo allevando. E lei mi piaceva quando

parlava e quando rideva: mi piaceva in modo particolare quando mi accarezzava diversamente dalle

altre operaie, con la sua mano fine, che mi suscitava sensazioni mai provate. Poi, quando mi guardava,

mi pareva di scorgere nei suoi occhi verdi qualcosa d'indefinito, come quando mio padre mi portava a

vedere il mare di Catania, e il mio sguardo si perdeva nell’infinito.

Ero felice. Sognavo di lei e di baciare quegli occhi, ma sapevo che era una cosa proibita e rabbrividivo

al pensiero che lei o qualche altro potesse immaginarlo.

Ma una mattina Elena non venne al lavoro. Ne chiesi alle altre donne, che però non sapevano nulla al

riguardo.

La sera, mentre con mio padre tornavo a casa sul carretto , domandai a lui perché quell'operaia di Aci

non fosse venuta.

- E' stata scacciata - mi rispose - perchè si è saputo che era una donna cattiva.

Non dissi altro a mio padre. A casa non riuscii ad addormentarmi, quella sera, pensando a Elena e

ai suoi occhi verdi che avevo sognato di baciare. E nel calduccio del mio letto piansi nascostamente.

                                                  (Da "STORIE PAESANE" Club Autori - Editori - Pordenone 1976)